Come dicevamo nel precedente post, occorre soffermarsi a riflettere su quale potrebbe essere lo svolgimento della prossima fase del ciclo economico. Molti dei classici sintomi di una recessione oggi sembra invero che non ci siano; normalmente si entra in una fase decrescente per via di un surriscaldamento dei classici settori ciclici (immobiliare/auto in primis) o per congelamento e appassimento di settori uno dopo l’altro. Il surriscaldamento è il segno di un eccesso di domanda (spesso finanziata a debito), il raffreddamento è il segno di un eccesso di offerta (troppo carbone, troppo shale oil ecc) o, paradossalmente, di un’improvvisa contrazione dell’offerta, come avvenne negli anni Settanta con le due crisi petrolifere. Ci sono poi, per completare il quadro, le recessioni di origine finanziaria e quelle derivanti da esogene (guerre, epidemie, ecc). Tutti questi scenari sembrano ben lontani dal palesarsi.
Restano però alternative. La prima è quella di un errore di politica monetaria, invero già commesso; ci si riferisce ai due eccessivi rialzi dei Fed Funds di fine settembre e fine dicembre 2018, e al Quantitative tightening chiuso con evidente rapidità tre mesi fa.
La seconda possibilità di recessione potrebbe essere dovuta a una crisi di fiducia negli Stati Uniti, e non tanto per l’impeachment, un rischio ad oggi inconsistente, quanto per le presidenziali che si avvicinano, atteso che l’incertezza politica è sempre nemica della stabilità. Nell’ipotesi, inoltre, in cui Trump dovesse perdere maggiori consensi, la crisi di fiducia potrebbe iniziare anche prima del voto, frenare ulteriormente gli investimenti produttivi e cominciare a provocare una riduzione delle assunzioni di nuovo personale da parte delle imprese.
Non si vuole qui prevedere o calcolare i tempi di una recessione, ma è indubbio che ci stiamo avvicinando alla fine di un ciclo economico molto lungo; al momento quello che si vede è ancora solo un rallentamento.